In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,31-40)
Domenica XXXIII del tempo ordinario, anno A – Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo – Alle nostre orecchie e alle nostre menti sembra così desueto e arcaico questo titolo della Regalità di Gesù. Tracce “archeologiche” di tempi in cui la Chiesa (romano cattolica) aveva bisogno di affermare una regalità superiore a quella di ben altre esperienze terrene ed umani, regali sì ma non per questo meno fragili o persino ostili alla fede…
Più familiare certamente a Gesù è l’ambiente storico in cui davvero si viveva nella consapevolezza di popoli guidati da re imperatori. E in questa notissima parabola di Mt 25 il modello regale viene proiettato maestosamente persino alla fine dei tempi, dove da un trono di regalità affidato al Figlio dell’uomo si potrà fare verità, rendere palese la verità, che è nella Carità/Amore. Vera “apocalisse” (visto che il significato della parola greca è “rivelazione” – appunto – non preannuncio di disgrazie!): l’apocalisse che è la carità/amore il metro sul quale tutto viene misurato da Dio, sia ciò che è noto sia ciò che è nascosto.
Certamente il brano del Vangelo di oggi si situa in un contesto ben più ampio nel libro di Matteo. È parte del discorso sulla venuta del figlio dell’uomo (24,1-25,46). Tale unità letteraria si sviluppa in quattro parti: il discorso sulle prove che attendono gli uomini (c. 24); la parabola delle dieci vergini (25,1-13); la parabola dei talenti (25,14-30); il quadro del giudizio delle nazioni (25,31-46). Matteo, come Marco e Luca, riporta un discorso profetico in cui Gesù parla del suo ritorno alla fine dei tempi, la “venuta del Figlio dell’uomo”. Il discorso è ritmato da parole di speranza: parla di quelli che saranno salvati (24,13), degli eletti (24,22.44), dei servi fedeli (24,45) che saranno ricompensati. E soprattutto dà una certezza sulla quale riposa la salvezza: il Figlio dell’uomo ritornerà (24,27.30-31.37.39.44).
Anche Francesco d’Assisi è molto suggestionato dalla pagina di Mt 25. Nella Regola non bollata XXIII (FF 65)
«…E ti rendiamo grazie, perché come tu ci hai creato per mezzo del tuo Figlio, così per il santo tuo amore, con il quale ci hai amato, hai fatto nascere lo stesso vero Dio e vero uomo dalla gloriosa sempre vergine beatissima santa Maria, e per la croce, il sangue e la morte di lui ci hai voluti redimere dalla schiavitù. E ti rendiamo grazie, perché lo stesso tuo Figlio ritornerà nella gloria della sua maestà per destinare i reprobi, che non fecero penitenza e non ti conobbero, al fuoco eterno, e per dire a tutti coloro che ti conobbero e ti adorarono e ti servirono nella penitenza: “Venite, benedetti del Padre mio, entrate in possesso del regno, che è stato preparato per voi fin dall’origine del mondo”».
Suggestione che si dilata in modo imprevedibile in un ribaltamento di situazione: i frati minori hanno la missione di permettere agli eletti di far loro del bene e così essere tra i benedetti del Padre:
«Talora, esortando i frati a cercare l’elemosina, [Francesco] usava argomenti di questo genere: “Andate, perché in questi ultimissimi tempi i frati minori sono stati dati in prestito al mondo, per dar modo agli eletti di compiere in loro le opere con cui meritarsi l’elogio del sommo Giudice e quella dolcissima assicurazione: Ogni volta che lo avete fatto a uno di questi miei frati più piccoli, lo avete fatto a me”» (Leggenda maggiore VII,8 : FF 1128).
«Diceva pertanto il beato Francesco: “Per questo Dio volle che i frati si chiamassero ‘‘minori’’, perché questo è il popolo che il Figlio di Dio chiese al Padre suo. E’ di questo popolo che il Figlio stesso di Dio dice nel Vangelo: Non temete, o piccolo gregge, poiché piacque al Padre vostro dare a voi il regno. E ancora: Quello che avrete fatto a uno di questi miei fratelli minori, lo avete fatto a me. E sebbene si debba intendere che il Signore ha detto questo alludendo a tutti i poveri in spirito, in modo particolare però predisse che sarebbe venuta nella sua Chiesa la Religione dei fratelli minori”» (Compilazione di Assisi 101 : FF 1640).
C’è un episodio della vita di Francesco d’Assisi che permette di riconciliare anche noi contemporanei con questa idea della “Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo”. Racconta il biografo che nei primissimi tempi dopo la conversione e l’abbandono della casa paterna Francesco…
«Vestito di panni cenciosi colui che un tempo si adornava di abiti purpurei, mentre se ne andava per una selva cantando le lodi di Dio in francese, a un tratto, alcuni manigoldi si precipitarono su di lui, domandandogli brutalmente chi fosse. L’uomo di Dio rispose impavido e sicuro: «Sono l’araldo del gran Re; che vi importa?». Quelli lo percossero e lo gettarono in una fossa piena di neve, dicendo: «Stattene lì, zotico araldo di Dio!». Ma egli, guardandosi attorno e scossasi di dosso la neve, appena i briganti si furono allontanati, balzò fuori dalla fossa e, tutto giulivo, riprese a cantare a gran voce, riempiendo il bosco con le lodi al Creatore di tutte le cose» (Tommaso da Celano, Vita prima, 16 : FF 346).
Nell’ingenuità di questo fatto e della risposta di Francesco, tanta saggezza evangelica. L’araldo era colui che ufficializzava i decreti e comandi del signore o re di un luogo/regione. Funzione di grande dignità e impegno: Francesco ha lasciato suo padre per seguire il Padre annunciato da Cristo; Francesco si sente investito di una dignità grande dal Signore di ogni cosa: si considera suo “araldo”. Povero, squattrinato; i manigoldi e briganti alla fine lo riconoscono come un penitente (“zotico araldo di Dio”): da lui non trarranno nessun guadagno… e lo lasciano cencioso e imbrattato di neve e fanghiglia. Bella divisa per un araldo di un re terreno! Ma è davvero la dignità che Francesco percepiva su di sé con ingenua limpidezza che ci riporta a considerare la dignità di ogni battezzato, araldo del messaggio di vita consegnato dal Signore del Tempo e della Storia.
Pregava il frate minore frate Antonio DI Padova DA Lisbona:
«Ti preghiamo, Signore Gesù, che dalla valle della miseria tu ci faccia salire al monte della vita santa, perché segnati dall’impronta della tua passione e fondati sulla mansuetudine della misericordia e lo zelo della giustizia, meritiamo nel giorno del giudizio di essere avvolti dalla nube luminosa e di sentire la voce della gioia, della letizia e dell’esultanza: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete il regno che è stato preparato per voi fin dall’origine del mondo». A questo regno si degni di condurci colui al quale è onore e gloria, lode e dominio, maestà ed eternità nei secoli dei secoli. E ogni spirito risponda: Amen!» (Sermone della II Domenica di quaresima [1])
(illustrazione di Betty Vivian che ringraziamo per la concessione)
a Chi celata corona porta
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