Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono».
Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre».
Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui.
Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,60-69).
Domenica XXI del Tempo Ordinario – anno B – Ci troviamo all’epilogo del lungo “discorso sul pane” del capitolo VI del Vangelo secondo Giovanni. E non è del tutto a lieto fine. Perché il Vangelo non è una favola! Sono infatti i discepoli e non “le genti” a esclamare che “la parola è dura. Chi può ascoltarla?”. Durezza della Parola? Durezza di udito? Durezza di cuore?…
La parola è dura? E’ intesa come dura. Usando lo stile proverbiale, Gesù oppone la carne allo spirito (vd 3,6) come fanno altri autori biblici. Quando Isaia (31,3) proclama: “L’egiziano è un uomo e non un dio, i suoi cavalli sono carne e non spirito”, il senso dell’opposizione è chiarissimo: da una parte ciò che non ha nessun potere vero, ogni creatura nella sua fragilità; dall’altra Dio, l’unico che dà la vita. Gli uditori di Gesù sono rimasti a questo livello. Hanno visto in lui soltanto il “figlio di Giuseppe”; per loro “la carne e il sangue” di Gesù erano solo il suo corpo mortale. Non potevano quindi capire l’insegnamento di colui che è “disceso dla cielo” per fare della sua “carne” – consegnata per il sacrificio e poi glorificata – la sorgente di vita eterna.
La parola è dura? E’ intesa come dura. E Gesù chiede se essa “scandalizza”. In greco lo scandalo è qualcosa di duro contro cui inavvertitamente si incespica, un ostacolo infido e ostile. Giovanni usa tale termine solo qui e in 16,1 e in 1Gv 2,10. Ha un senso molto forte: dice che la fede è messa in grave pericolo. Infatti a causa di questo “incespicare” alcuni discepoli non andranno oltre, abbandonando Gesù (6,66). E’ l’inizio dell’isolamento nel quale Gesù affronterà la Pasqua. Il Regno non si instaura in forza di un movimento popolare. E’ opera di fede.
Giovanni conclude il discorso di Cafarnao con una scena drammatica: Pietro – nello sbandamento dei discepoli – proclama come può la sua fede in Gesù parlando con “un plurale” che sa tanto di farsi coraggio per non sentirsi solo nella “pazzia” di seguire ostinatamente non tanto quella parola dura ma la Persona che la propone. I sinottici collocano la professione di fede di Pietro in un contesto diverso: tuttavia diversi indizi invitano a considerare il racconto giovanneo come l’equivalente della scena di Cesarea (Mc 8,27-33; Mt 16,13-23; Lc 9,18-22). Ossia: il ruolo maggiore di Pietro nella fedeltà dei Dodici; il ricordo – al momento della professione di fede, della presenza attiva del tentatore tra i Dodici (Gv 6,70); l’imminenza della partenza dalla Galilea e l’andata a Gerusalemme.