In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli». (Gv 15,1-8)
Domenica 5′ del tempo di Pasqua – anno B - Nel discorso d’addio dell’Ultima Cena Giovanni ha collocato molti temi tipici della sua teologia e della sua mistica. Nel brano proposto dalla liturgia l’evangelista illumina il rapporto di intimità che intercorre tra la Chiesa e il Cristo. Già l’antico testamento aveva usato questo simbolismo della vigna per illustrare il nesso che intercorreva tra Israele e il suo Dio, un nesso di cure e premure da parte del Signore e di indifferenza e rifiuto da parte di Israele (emblematico al riguardo è lo splendido canto del profeta Isaia riguardante la vigna: Is 5,17; 27,2.6; ma anche: Ger 2,21; Ez 15,1-8; 17,2-10; Os 10,1; Sal 80,9-20; Mc 12,1-9; Mt 20,1-16; 21,28-32; Lc 13,6-9). Il tralcio unito al ceppo, l’adesione vitale del credente al Cristo sono essenziali per la fecondità dei frutti: non per nulla il quarto vangelo ripete nella sezione ben cinque volte l’espressione «in me». Il «rimanere» in Cristo è fondamentale al germoglio della fede che è in noi perché possa avere un senso e possa sopravvivere.