In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”» (Mt 25,14-15.19-21, forma breve di 25,14-30).
Nella Parabola ci sono tre momenti: 1) La consegna secondo le capacità. Ma il numero dei talenti consegnati a ciascuno non avrà alcuna conseguenza. 2) L’attesa. Qui attendere e vigilare significa operare e far fruttare. Non dunque essere a posto «legalmente», ma impegnàti e responsabili del dono. 3) Il rendiconto, momento culminante. Il premio è uguale: la comunione col Signore.
Non mancano espressioni paradossali per enfatizzare il cuore del messaggio evangelico della parabola: 5 talenti corrispondono oggi (secondo Bibbia TOB) a più di diecimila euro! Il primo servo che ne ha fruttati altri cinque ha compiuto davvero qualcosa di notevole, eppure “sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto”! L’attenzione è sulla fedeltà, non sul risultato: infatti anche il secondo servo viene “premiato” per la fedeltà.
Il terzo servo vuol difendersi e giustificarsi, senza che gli fosse stato richiesto. Mette le mani avanti. So che sei un «uomo duro», dice. E il padrone riceve l’accusa «sfrontata» e per questo lo condanna. Prima al terzo servo è mancata l’iniziativa, l’impegno e la buona volontà. Ora gli manca l’umiltà e l’onestà di riconoscere il proprio errore.
La conclusione è sconvolgente: il ricco diventa ancora più ricco, perché il problema non è amministrativo. Dio non ha bisogno di cose – le dona – ma di impegno e di amore e di fedeltà. È, quindi, una questione di fondo: o salvezza totale o rovina.
Chi è il terzo servo? Colui che trasforma il rapporto religioso in un fatto di paura; una paura che deforma il senso della vita e il volto di Dio, dandone un immagine mostruosa.
Ogni dono non è un privilegio ma una responsabilità; non un titolo di onore ma un impegno. L’albero che occupa la terra e prende sole, aria, acqua, deve dare frutti. Dio verrà a cercare i suoi frutti, a regolare i suoi conti. La chiamata è per tutti, la vittoria è di chi rimane fedele.
Nota acutamente un biografo minore di san Francesco, Ruggero di Wendover: «L’amico di Dio, Francesco, per molti anni predicò il Vangelo della pace, assieme ai suoi frati, nella città di Roma e nelle regioni vicine, restituendo al suo donatore, da commerciante molto avveduto, il talento ricevuto ridondante di cospicui interessi» (FF 2292).
E ancora più spinto nel parallelo evangelico tra Francesco e la pagina matteana è fra Salimbene de Adam da Parma che così si esprime: «Si dice, a riguardo del beato Francesco, che a uno Dio consegnò cinque talenti. Non c’è mai stato infatti nessuno al mondo, se non il solo Francesco, nel quale Cristo impresse le cinque piaghe perché fosse in tutto a lui somigliante. Mi ha raccontato frate Leone, che era suo compagno ed era presente, che quando si stava lavando il suo corpo per la sepoltura, sembrava veramente come un crocifisso deposto dalla croce.» (FF 2587).
Oltre ai biografi, Francesco stesso sente forte l’appello scaturito dalla parabola dei talenti:
«XVIII. – LA COMPASSIONE PER IL PROSSIMO – Beato l’uomo che offre un sostegno al suo prossimo per la sua fragilità, in quelle cose in cui vorrebbe essere sostenuto da lui, se si trovasse in un caso simile. Beato il servo che restituisce tutti i beni al Signore Iddio, perché chi riterrà qualche cosa per sé, nasconde dentro di sé il denaro del Signore suo Dio, e gli sarà tolto ciò che credeva di possedere» (Ammonizioni, XVIII : FF 167-168).
«[Diceva Francesco:] Questi sono i miei frati, cavalieri della tavola rotonda, che si appartano in luoghi disabitati e remoti per abbandonarsi con più amore all’orazione e alla meditazione, piangendo i peccati propri e altrui. La loro santità è nota a Dio, e talvolta ignota ai fratelli e agli altri uomini. Quando le loro anime saranno presentate dagli angeli al Signore, allora egli mostrerà loro il frutto e la ricompensa delle loro opere: le molte anime, cioè, salvate dalle loro orazioni. E dirà loro: ‘‘Figlioli, ecco: tutte queste anime sono state salvate per mezzo delle vostre preghiere; e poiché foste fedeli nel poco, vi farò padroni di molto’’» (Compilazione di Assisi : FF 1647).
E santa Chiara alle sorelle non fa mancare simile ammonimento nel suo Testamento:
«Con quanta sollecitudine e con quanta applicazione di mente e di corpo dobbiamo dunque custodire i comandamenti di Dio e del nostro padre, per restituire con la cooperazione del Signore il talento moltiplicato!» (FF 2828).
(nell’illustrazione, “Elevation” (particolare), olio su tela di Betty Vivian, che ringraziamo per la concessione)
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