Trentesima
domenica del tempo ordinario / anno A. La liturgia romana propone il brano di Matteo 22,34-40,
che nelle rubriche delle Bibbie viene intitolato “Il grande comandamento”.
Una pericope particolarmente importante
nel messaggio evangelico, visto che sia Marco (12,28-34) che Luca (10,25-28) riportano
– in contesti abbastanza simili – il medesimo messaggio di Gesù. Secondo alcuni
potrebbe essere il “distillato del Vangelo”, oppure quell’unica pagina che se
si salvasse in un ipotetico naufragio basterebbe per comprendere comunque cosa
sia il Vangelo in un’isola sperduta.
Si resta
coinvolti da uno scambio secco e rapido tra chi cerca di mettere alla prova
Gesù, e lo stesso Gesù che in tal contesto ha comunque l’occasione di essere
Maestro e non giudice: non cade nel rubricismo giudaico (che contemplava più di
seicento precetti desunti dalla Legge antica) ma giunge subito al cuore di un
messaggio di salvezza, anche per chi gli si avvicinava con intento tutt’altro che
umile.
E si resta
sorpresi che IL comandamento “più grande” è così grande… che in realtà devono
essere due: per carità “niente di nuovo
sotto il sole” direbbe Qoelet, si tratta di due versetti, uno del
Deuteronomio 6,5 e uno del Levitico 19,18. E Gesù pone il suo segno: ciò che apparentemente
è disgiunto nei rotoli della sacra scrittura, va unito per comporre IL
comandamento più grande. «Amerai il
Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la
tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile
a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso». La Bibbia TILC
(Traduzione interconfessionale in lingua corrente) si spinge un po’ oltre: «Ama il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo
cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il
comandamento più grande e più importante. Il secondo è ugualmente
importante: Ama il tuo prossimo come te stesso». La prima traduzione (CEI
2008) sembra porre l’accento sulla forma,
la TILC sulla qualità: ma l’importanza
del concetto è egualmente espressa.
E la novità
che traspare è quella che Gesù mette in relazione indissolubile due dimensioni:
quella “verticale” uomo-Dio (che
coinvolge tutto l’essere umano cuore-anima-mente) e quella orizzontale uomo-uomo / io-prossimo (che nella
redazione Lucana apre al quesito fondamentale: «E chi è il mio prossimo?»). Perché questa proposta di Cristo può
essere accolta più di una proposta filosofica morale? Lo sguardo si solleva
dalle pagine della Bibbia trasognato in cerca di risposta… e la risposta sta lì
di fronte, appesa… La tavola lignea del crocifisso in cappella è la risposta: i
due assi verticale e orizzontale si compongono nella croce e il punto di
contatto sta proprio nel cuore del Crocifisso, di Gesù. Vero Dio, vero uomo.
Solo in Cristo si comprende come l’uomo abbia piena dignità nella dimensione
verticale, e come la concretezza dei gesti di Gesù per ‘il suo prossimo’
divengano di coloritura non filantropica ma divina.
Forse l’amore
di Francesco d’Assisi per quel crocifisso che gli parlò in San Damiano passa
pure per questa prospettiva inespressa ma leggibile sulla tavola sacra: l’uomo
della croce che spalanca le braccia in un abbraccio che solo nel dettaglio si
scopre essere fissato nel patibolo; l’uomo della croce che gloriosamente
composto è ritto in piedi e tutt’altro che sofferente e straziato nella sua
dimensione verticale di obbedienza al Padre.
#bibbiafrancescana segnala che il brano
in questione è ricordato almeno dieci volte nelle Fonti francescane. Una ricognizione attenta dimostra che alcune
risonanze sono un po’ marginali (3Cel
22:FF845; Ricordi di frate Illuminato,2:FF2691),
altre più interessanti (Lettera ai
fedeli, I:FF178/1; Lettera ai fedeli,
II:FF186.190; 3Comp 68:FF1482; AnPer 46:FF1541; Incipit Regola OFS:FF3415).
Senza entrare
nei tecnicismi delle Fonti francescane
e restando su un piano più “carismatico”, è bello vedere come IL comandamento
di cui sopra, per Francesco assume una centralità inusuale nel resto dei suoi
scritti, ponendosi come elemento di partenza sia per la riflessione della prima
redazione della Lettera ai fedeli,
che ancor più poi nella seconda più ampia redazione. «Nel nome del Signore. Tutti coloro che amano il Signore con tutto il
cuore, con tutta l’anima e la mente, con tutta la forza e amano i loro prossimi
come se stessi, e hanno in odio i loro corpi con i vizi e i peccati, e ricevono
il corpo e il sangue del Signore nostro Gesù Cristo, e fanno frutti degni di
penitenza: oh, come sono beati e benedetti quelli e quelle, quando fanno tali
cose e perseverano in esse…» (Lettera
ai fedeli, I:FF178/1); «…quanto sono
beati e benedetti quelli che amano il Signore e fanno così come il Signore
stesso dice nel Vangelo: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con
tutta la mente, e il prossimo tuo come te stesso» (Lettera ai fedeli, II:FF186). Per Francesco IL comandamento è
progetto sicuro di beatitudine evangelica, ed è non solo praticabile ma
necessario.
Guardando anche
al suo profilo biografico, possiamo credere che queste attenzioni di Francesco siano
basate sulla sua esperienza e non solo su intuizioni o elucubrazioni: se ne
accorsero pure i biografi che fanno ritornare due volte l’eco de IL
comandamento, sempre nella narrazione della morte/transito di Francesco (3Comp 68:FF1482; AnPer 46:FF1541): «Molto egli
aveva faticato nella vigna del Signore, sollecito e fervente nelle orazioni,
nei digiuni, nelle veglie, nelle predicazioni e peregrinazioni apostoliche,
nella cura e compassione verso il prossimo e nel disprezzo di sé : e ciò dai
primordi della conversione fino al giorno in cui migrò a Cristo, che egli aveva
amato con tutto il cuore, portando sempre nella mente la memoria di lui,
lodandolo con la parola e glorificandolo con le sue opere fruttuose. Amò
infatti Dio con tanto ardore e profondità che, al solo udirlo nominare, si
sentiva liquefare tutto interiormente, e fuori prorompeva in queste parole:
«Cielo e terra dovrebbero chinarsi al nome del Signore!».
Eppure
Francesco non smentisce mai in un sano realismo che apparentemente sembrerebbe
mitigare la grandezza del progetto divino, e in realtà ne traccia il segno di
una praticabilità che passa per la gradualità: «Facciamo, inoltre, frutti degni di penitenza. E amiamo i prossimi come
noi stessi. E se qualcuno non vuole amarli come se stesso, almeno non arrechi
loro del male, ma faccia del bene» (Lettera
ai fedeli, II:FF190).
Anche santa
Chiara ha da dire la sua in materia. L’intensità della sua contemplazione va
persino oltre la visione bidimensionale del crocifisso, e – facendosi maestra
per la sorella Agnese di Boemia – le dischiude i segreti di una tripartizione
mente-anima-cuore che ha come obiettivo la trasformazione in Cristo: «Poni la tua mente nello specchio
dell’eternità, poni la tua anima nello splendore della gloria, poni il tuo
cuore nella figura della divina sostanza e trasformati tutta, attraverso la
contemplazione, nell’immagine della sua divinità, per sentire anche tu ciò che
sentono gli amici gustando la dolcezza nascosta che Dio stesso fin dall’inizio
ha riservato ai suoi amanti» (FF2888).
Forse la disciplina antica delle scuole primarie di un tempo, quando i primi giorni in grembiule e fiocco azzurro o rosso la maestra ci faceva riempire pagine di quaderno con stanghette, trattini, crocette… quei segni potevano avere una valenza pure ascetica che lascia il segno T di tau nell’animo francescano adulto…
«A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen».
Forse la disciplina antica delle scuole primarie di un tempo, quando i primi giorni in grembiule e fiocco azzurro o rosso la maestra ci faceva riempire pagine di quaderno con stanghette, trattini, crocette… quei segni potevano avere una valenza pure ascetica che lascia il segno T di tau nell’animo francescano adulto…
«A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen».
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