Una piccola riflessione che mi è stata chiesta per il volumetto preparato in occasione della chiusura della presenza dei fati minori conventuali nella Parrocchia Sacro Cuore di Mestre: «...e vi doni la Sua pace». I frati salutano la parrocchia del Sacro Cuore, pro-manuscripto, Mestre 2017, pp. 25-26.
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Plurale singolare
Sembra un ossimoro, ma dopo tanti anni mi piace sintetizzare così l’esperienza di vita e di fede vissuta a Mestre nella Parrocchia del Sacro Cuore e nel suo convento francescano.
È “singolare” il fatto che la mia percezione di Chiesa e di fede per moltissimi anni (diciamo fino a 21 anni) sia rimasta confinata in una forma che davo per scontata e unica, ossia quella di una Parrocchia retta da una comunità religiosa francescana. Era la mia esperienza: e un’esperienza tanto coinvolgente che non mi provocava nemmeno ad uno sguardo all’infuori. Sguardo che probabilmente mi avrebbe fatto capire prima che – in genere – una comunità parrocchiale non è normalmente affidata ad una comunità religiosa. Oggi a 48 anni (di cui già 25 vissuti in convento) posso dire serenamente che una parrocchia affidata a religiosi non è né meglio né peggio di una parrocchia animata dal clero secolare: ciò che fa la differenza è – nell’uno e nell’altro caso – quanto spazio sia dato allo Spirito santo… per essere il vero animatore della comunità.
È però “plurale” l’impronta lasciata nel mio immaginario ecclesiale da parte di tanti frati che ho conosciuto dal mio battesimo nel 1969 al 1992 quando ho cominciato il cammino di discernimento vocazionale in convento a Treviso. È quel “plurale” che mi sollecitava a decifrare uno “stato di vita” (così ne parla la teologia oggi, all’epoca non lo sapevo) diverso sia dal progetto matrimoniale che dal progetto presbiterale, quest’ultimi incarnati comunque da testimoni esemplari conosciuti attorno a me. Lo stranissimo “stato di vita consacrata” di uomini chiamati dalla gente “padri” ma che tra loro si interpretavano come “fratelli” nel progetto di testimoniare l’unico “Padre” alla sequela del “Figlio”. Un bel guazzabuglio… da dipanare con pazienza nell’unica modalità possibile: conoscendoli un po’ per volta!
È allora “plurale singolare” la singolarità di un progetto fraterno nella pluralità. Con ciascun religioso che portava e porta il suo carico di umanità e fragilità, arricchito di tanti carismi e altrettanti limiti. In una coralità espressiva non aliena da stonature, ma altrettanto capace di armonie inattese o imprevedibili. E una solidarietà composta e schietta che raccontava una verità di vita sulla quale poter ragionevolmente domandarsi: “E perché questo non potrebbe essere buono e bello per me?”. In fondo di san Francesco ce n’è stato solo uno, ma da otto secoli altri uomini hanno provato a stare con lui tramandandosi le braci di quel fuoco antico e consegnandole ancora calde a quanti tendevano la mano per scaldarsi a quell’idea evangelica di umanità.
E se oggi – ora frate pure io – assisto all’evento di confratelli “pellegrini e forestieri” come li voleva san Francesco (Regola, VI) che lasciano la comunità di Mestre, posso solo interrogarmi sul bene non fatto abbastanza in questi decenni, ma non di sicuro sul rischio che le braci, per chi lo desideri, non rimangano là. Plurali singolari.
fr. Andrea Vaona
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