Da qualche mese la diocesi di Padova vive l’intenso anno pastorale alla luce del tema offerto dagli ‘orientamenti’ presentati dal suo vescovo, mons. Antonio Mattiazzo: «Cristiani per il bene comune». Non sono mancati né mancano appuntamenti di approfondimento del tema anche nei consigli pastorali parrocchiali. Il carisma francescano può offrire qualche riflessione in merito?
Se per ‘bene’ è possibile definire “tutto ciò che può essere oggetto di appropriazione e utilizzo” ossia “tutto quello che è suscettibile di valutazione economica”, intuiamo che l’opzione di povertà di Francesco d’Assisi non può restare ai margini di questa tematica.
In un contesto socioeconomico molto diverso dal nostro, momento di epocale trasformazione verso un sistema monetario e di capitalizzazione, la trasformazione di Francesco da mercante a mendicante diventa sintomatica di un cambiamento dettato da valori evangelici percepiti nella loro radicalità. Trasformazione talmente incomprensibile e inattesa che – come sappiamo – venne scambiata dai contemporanei per pazzia, unica spiegazione a tanta irrazionalità.
L’episodio della prigionia di Francesco a Perugia (dopo la malaugurata esperienza della battaglia di Collestrada) non è approfondito in alcuna delle antiche biografie, se non adombrato come momento di drammatica esperienza conclusasi con la liberazione: quest’ultima avvenuta evidentemente per il cospicuo riscatto pagato dalla ricca famiglia di Pietro di Bernardone. Anche Francesco – negli scritti che ci sono giunti ed a lui attribuiti – non fa riferimenti espliciti a questa difficile pagina della sua vita. Eppure è da presumere che la prigionia sia stata soprattutto un’esperienza dolorosa di privazione di libertà, di malattia, di grandi domande esistenziali che amplificarono la ricerca di senso di vita che il giovane Francesco già palesava prima della guerra. Esperienza cruciale di mancanza di beni, materiali e affettivi, per tanto e troppo tempo dati per scontati da Francesco.
Nulla togliendo dunque al cammino spirituale di Francesco dettato dai momenti forti del ritorno ad Assisi, di San Damiano, del lebbroso… di cui tanto abbiamo letto nelle Fonti e nelle biografie moderne del Santo, è bene però sottolineare l’intensità di questa esperienza drammatica della prigionia. In essa certamente Francesco ha fatto l’esperienza umiliante di essere trattato non da persona ma come un oggetto, un bene di scambio: la sua vita ha avuto ‘un prezzo’. Quella di tanti suoi compagni di battaglia, non nobili, non figli di ricchi neo-borghesi… non ebbe nessun valore, nessun prezzo agli occhi degli uomini. La morte era l’unico prezzo che potesse saldare il conto con la storia.
Ci vuole un altro sguardo, diverso da quello degli uomini, per restituire il vero valore del bene della vita e dell’umanità: lo sguardo di chi ha creato quella vita, lo sguardo di Dio. Per Francesco sarà lo sguardo del Crocifisso di San Damiano. Francesco si lascia ‘catturare’ da questo sguardo, unico capace di riportare ordine nel disordine della cupidigia e diseguaglianza operata dagli uomini. Ecco allora che scopre come i ricchi beni del padre e suoi lo limitano, lo allontanano da quello sguardo: è insopportabile questa privazione. Francesco abbandona i beni!
Francesco si fa povero, non diventa povero. L’opzione di Francesco è quella di scegliere la povertà, non subirla per disgrazie o ingiustizie. La scelta è quella dell’essere con e per coloro che non hanno che pochi beni o nessun bene, ma possono ricorrere con verità ad uno sguardo diverso, quello del Sommo Bene.
Non è dunque un caso che anni più tardi l’elaborazione esperienziale di Francesco confluisca anche nei suoi scritti più ponderati, come ad esempio la Regola non bollata: «E attribuiamo al Signore Dio altissimo e sommo tutti i beni e riconosciamo che tutti i beni sono suoi e di tutti rendiamo grazie poiché procedono tutti da lui. E lo stesso altissimo e sommo solo vero Dio abbia, e gli siano resi, ed egli stesso riceva tutti gli onori e l’adorazione, tutta la lode e tutte le benedizioni, ogni rendimento di grazie e ogni gloria, poiché ogni bene è suo ed Egli solo è buono» (RnB XVII – FF 49). Se ogni bene proviene dal Padre, perché il possesso esclusivo? La via è quella della condivisione e distribuzione dei beni, da fratelli e tra fratelli. Ecco la scelta di Francesco del modello della comunità apostolica delle origini, in fraternitas (non communitas come il modello monastico) tra fratelli davanti all’unico Padre, per vivere la minoritas.
«Nient’altro dunque si desideri, nient’altro si voglia, nient’altro ci piaccia e ci soddisfi se non il Creatore e Redentore e Salvatore nostro, solo vero Dio e che è pienezza di bene, totalità di bene, completezza di bene, vero e sommo bene, che solo è buono, misericordioso e mite, soave e dolce, che solo è santo, giusto, vero e retto, che solo è benigno, innocente e puro, dal quale e per il quale e nel quale è ogni perdono, ogni grazia, ogni gloria di tutti i penitenti e di tutti i giusti, di tutti i santi che godono insieme nei cieli» (RnB XXIII – FF 70). È Dio il bene sommo, vero, completo, totale: i beni sono suoi e vengono da Lui. Lui li dona, noi tutti mendicanti tendiamo la mano. Guai a quella mano che prende e trattiene: Francesco impara guardando alle mani di Gesù che prendono, benedicono, spezzano e distribuiscono…
«Tu sei il bene, tutto il bene, il sommo bene, Signore Iddio vivo e vero» (Lodi a Dio Altissimo): anche nella ricchissima preghiera di contemplazione e lode scaturita dal cuore di Francesco dopo l’esperienza delle stimmate alla Verna non manca questa consapevolezza dell’unicità di bene rappresentata da Dio per ogni uomo di qualsiasi condizione sociale. Dai beni al Bene dispensatore di ogni bene, materiale e spirituale.
Perché allora l’ostilità di Francesco per il denaro? Francesco nega (e questo poté apparire provocatorio nelle città o nelle corti del primo Duecento) che il denaro fatto di monete possa rappresentare credibilmente la realtà del mondo naturale e sociale. Il lupo reso domestico a Gubbio, gli uccelli a cui si può predicare il Vangelo a Bevagna, i ladroni di Borgo San Sepolcro che possono essere indotti a farsi frati, i lebbrosi incontrati per via e accuditi senza paura fino a condividerne la scodella, i rustici nella loro “semplicità” e miseria, non appartengono alla città e il denaro non può raffigurarne il valore. Tutte le volte che Francesco viene ritratto nei suoi contatti con queste presenze oscure e prive di parola, quello che viene comunicato è che la sua povertà, la sua lontananza dal denaro e dalla proprietà (ossia dall’appropriazione definitiva di qualcosa) gli consentono di vedere, udire, annusare e sperimentare, cioè di capire, tutto quanto si trovi al di là della vita civile dei ricchi e che appare spaventoso perché minacciosamente estraneo, deforme, contagioso, inumano.
Sappiamo come l’insegnamento e l’esempio di Francesco sia stato seguito con passione ma anche con fatica dai suoi fratelli o ‘figli spirituali’, cercando di adattare la radicalità della sua proposta con gli appelli dettati dalla Chiesa e dall’evoluzione dei tempi e strutture. Le tante proibizioni dell’uso del denaro rivolte ai frati minori da Francesco (di cui troviamo moltissime tracce negli scritti normativi e lettere) nel corso dei secoli sono state ingabbiate o reinterpretate alla luce del servizio offerto nella Chiesa e nelle nuove strutture socio-culturali-caritative che venivano affidate ai frati minori. Del resto la vera sfida Francesco l’aveva lanciata quando morente «disteso sulla terra, dopo aver deposto la veste di sacco, sollevò la faccia al cielo, secondo la sua abitudine totalmente intento a quella gloria celeste, mentre con la mano sinistra copriva la ferita del fianco destro, che non si vedesse. E disse ai frati: “Io ho fatto la mia parte; la vostra, Cristo ve la insegni”» (FF 1239).
La creatività evangelica richiesta da Francesco ai sui fratelli non è venuta meno come in tante occasioni la storia francescana ha saputo documentare. È questo anche in campo economico: lì dove sembrava che il sistema monetario potesse essere solo origine di maggiore povertà o squilibri sociali, l’ingegno e il carisma di alcuni frati minori ha saputo far nascere strutture o istituzioni affidate a laici.
Non è mai sufficientemente noto il fatto che proprio dei frati minori siano stati ideatori dei Monti di Pietà (fr. Barnaba Manassei a Terni nel 1462; fr. Bernardino da Feltre, †1494), ossia i primi rudimentali sistemi bancari di credito costituiti da un fondo cassa raccolto come questua trai più abbienti. Un modo intelligente e ponderato per rendere praticabili valori di giustizia e condivisione di beni.
E sempre un francescano (fr. Luca Pacioli, †1517) sarà colui che teorizza un sistema di registrazione dei movimenti monetari mercantili e istituzionali (oggi noto come ‘partita doppia’) al fine di rendere trasparenti i conti e salvaguardare la giustizia in ambiti dove l’avidità poteva portare a iniquità o delitti.
Senza contare la nota vicenda del frate minore Antonio di Padova che il 17 marzo 1231 vede i frutti della sua appassionata predicazione contro l’usura e di solidarietà con le famiglie colpite da questa piaga nell’impossibilità di saldare i loro debiti: il Comune di Padova quel giorno muta gli statuti della città con una legge più equa e meno vessatoria.
Chi ama il Sommo Bene, chi – come Francesco aveva insegnato – sa che i beni vengono da Lui e sono suoi, trova passione e impegno e ingegno non per impadronirsene, ma perché siano bene di tutti, bene comune.
fr. Andrea Vaona, ofm conv
pubblicato su "In Charitate Christi", 1/2009.
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