Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!» (Mc 7,31-37)
Domenica XXIII del Tempo ordinario – anno B – Nella narrazione marciana Gesù si trova in un territorio pagano. Dove ha già liberato dal demonio una bambina, Gesù guarisce ora un sordomuto. E le folle proclamano che egli adempie le profezie che annunziano come il Messia farà udire i sordi e parlare i muti. La comunità dei credenti nel risorto è dunque chiamata a lasciarsi continuamente aprire le orecchie e reimparare ad ascoltare, allo scopo di poter proclamare la Parola che libera.
E’ questo un racconto esclusivo di Marco. Come nel passo precedente, Gesù guarisce un pagano: ora si tratta di un sordomuto. Un po’ più avanti (8,22-26) guarirà un cieco. In queste guarigioni si percepisce un insegnamento sempre attuale: Gesù guarisce ancora: le orecchie dei sordi si aprono per sentire la parola di Dio; il muto può parlare per confessare la sua fede; il cieco potrà riconoscere l’inviato di Dio.
E la dinamica è importante: non può parlare chi non ascolta; con l’ascolto poi arriva la parola. Dunque il primato è nell’ascolto, come da sempre nella rivelazione: “Shemà Israel!”, Ascolta Israele (Dt 6,4).
Si è sordi per incapacità di percepire suoni… ma è sordo pure chi è immerso nel rumore o frastuono: non è capace di distinguere nulla. Oggi più che mai necessitano luoghi e tempi e spazi di “silenzio” esteriore e interiore, lontani dal frastuono di sollecitazioni multimediali che ormai avvolgono la nostra quotidianità. Altrimenti… non si ha più nulla da dire!, ammutoliti da tale particolare sordità.
Una volta di più, Gesù evita qualsiasi pubblicità: “lo prese in disparte…”. Agisce solo per rispondere alla fede di alcuni pagani, anche se questa fede è ancora rudimentale: forse nasce da pietà, o da amicizia, o da disperazione… Gesù ascolta questi sconosciuti; Gesù dona la possibilità di ascoltare a chi ne è privo.
I gesti che qui Gesù moltiplica: le dita negli orecchi del sordo, la saliva sulla lingua, come anche il fatto di sospirare (7,34) indicano che i miracoli di Gesù non hanno la minima relazione con i prodigi fatti per impressionare. Gesù si impegna totalmente per salvare quest’uomo: è più che “prossimo”. Senza contare che il tutto avviene per gradi: da un accogliere, ad un prendere in disparte, a fare gesti e dire parole, a consegnare, a inviare…
Ed è la Parola che salva e che “apre”. Qui: “Effatà!”. La parola aramaica, come l’espressione “Talita kum!” (5,41), è riferita tale quale, quasi come se nel tenore originale conservasse meglio qualcosa dell’onnipotenza della parola di Gesù. Ma evidentemente il valore di quest’espressione è basato non su di essa (non è magia!), ma sulla presenza efficace di Gesù. Questa parola compare ancora oggi nel rituale del battesimo degli adulti.
Gesù realizza così la profezia di Isaia 35,5 I pagani percepiscono qui il segno profetico annunziato da Isaia (prima lettura della liturgia di questa domenica) e si aprono alla luce della fede. Essi prefigurano la moltitudine della gente che era spiritualmente sorda e muta. Guariti da Gesù ecco che ora sentono la chiamata che Dio rivolge loro e proclamano la Buona Novella. L’invito a non testimoniare quanto accaduto è paradossale ma da considerarsi contestuale all’evento: solo dopo aver fatto l’esperienza della passione/morte/resurrezione/pentecoste il discepolo può annunciare la pienezza della liberazione nella Parola di Gesù Cristo Signore.
Anche il primo biografo di Francesco, Tommaso da Celano, alla luce dell’evento importante dell’incontro di Francesco con la pagina del Vangelo ispiratrice la sua nuova forma di vita, concorda che il santo seppe non essere sordo alla proposta evangelica: «Il sacerdote glielo commentò punto per punto e Francesco, udendo che i discepoli di Cristo non devono possedere né oro, né argento, né denaro, né portare bisaccia, né pane, né bastone per via, né avere calzari, né due tonache, ma soltanto predicare il regno di Dio e la penitenza, subito, esultante di divino fervore, esclamò: «Questo voglio, questo chiedo, questo bramo di fare con tutto il cuore!». Si affretta allora il padre santo, tutto pieno di gioia, a realizzare il salutare ammonimento; non sopporta indugio alcuno a mettere in pratica fedelmente quanto ha sentito: si scioglie immediatamente dai piedi i calzari, abbandona il suo bastone, si accontenta di una sola tunica, sostituisce la sua cintura con una cordicella. Da quell’istante confeziona per sé una veste che riproduce l’immagine della croce, per tener lontane tutte le seduzioni del demonio; la fa ruvidissima, per crocifiggere la carne e tutti i suoi vizi e peccati, e talmente povera e grossolana che il mondo non avrebbe mai potuto desiderarla. Con somma cura e devozione si impegnava a compiere gli altri insegnamenti uditi. Egli infatti non era stato un ascoltatore sordo del Vangelo, ma, affidando a un’encomiabile memoria tutto quello che ascoltava, cercava con ogni diligenza di eseguirlo alla lettera» (1Cel 22 : FF 357).
Il tema dell’ascolto è ricorrente nei testi di Francesco d’Assisi, al punto di farne ammonizione esplicita per i suoi frati, come leggiamo nella Lettera a tutto l’Ordine: «E siccome chi è da Dio ascolta le parole di Dio, per questa ragione noi, che in modo tutto speciale siamo deputati ai divini uffici, non solo dobbiamo ascoltare e fare quello che Dio dice, ma inoltre, per radicare in noi l’altezza del nostro Creatore e in lui la nostra sottomissione, dobbiamo custodire i vasi sacri e gli altri strumenti liturgici, che contengono le sue sante parole. Perciò ammonisco tutti i miei frati e li incoraggio in Cristo perché, dovunque troveranno le divine parole scritte, come possono, le venerino e per quanto spetta a loro, se non sono ben riposte o giacciono indecorosamente disperse in qualche luogo, le raccolgano e le ripongano, onorando nelle sue parole il Signore che le ha pronunciate. Molte cose infatti sono santificate mediante le parole di Dio, e in virtù delle parole di Cristo si compie il sacramento dell’altare» (FF 216).
Il gesto salvifico di Gesù torna per Bibbia Francescana in un racconto di un miracolo di san Francesco: «A Susa, un giovane di Rivarolo Canavese, di nome Ubertino, era entrato nell’Ordine dei frati minori. Durante il noviziato, a causa di un terribile spavento, divenne pazzo e, colpito da gravissima paralisi in tutta la parte destra, perdette, oltre al moto, la sensibilità, l’udito e la parola. Con grande mestizia dei frati, egli rimase disteso nel letto in quella condizione cosı` pietosa per molti giorni, mentre intanto si avvicinava la solennità di san Francesco. Alla vigilia, ebbe un momento di lucido intervallo e, così come gli riusciva, si mise a invocare, con parole indistinte, ma fervida fede, il padre pietoso. All’ora del mattutino, mentre tutti gli altri frati erano in coro intenti alle divine lodi, ecco il beato padre apparire al novizio nell’infermeria, vestito con l’abito dei frati, facendo risplendere una grande luce in quell’abitazione. E ponendogli la mano sul fianco destro, la fece scorrere dolcemente dalla testa ai piedi; gli mise le dita nell’orecchio e gli impresse un segno particolare sulla spalla destra, dicendo: «Questo sarà per te il segno che Dio, servendosi di me che tu hai voluto imitare entrando in Religione, ti ha ridonato perfetta salute». Mettendogli poi il cingolo, perché´ stando a letto il novizio non lo aveva indosso, gli disse: «Alzati e va’ in chiesa a celebrare devotamente, insieme con gli altri, le debite lodi di Dio». Detto questo, mentre il giovane cercava di toccarlo con le mani e di baciargli i piedi, in segno di ringraziamento, il beato padre scomparve dalla sua vista. Il giovane, riacquistata la salute e la lucidità della mente, la sensibilità e la parola, entrò in chiesa tra lo stupore dei frati e dei secolari, presenti per la circostanza, i quali avevano visto il giovane quand’era paralitico e senza senno; partecipò alla recita delle lodi e poi raccontò per ordine il miracolo, infiammando tutti alla devozione per Cristo e per il beato Francesco» (San Bonaventura, Leggenda Maggiore, Miracoli, cap. 10 : FF 1325).
Anche santa Chiara entra nel novero di coloro che aprono l’orecchio all’ascolto della Parola e delle parole: «Disse anche che un’altra, chiamata sora Cristiana, era stata sorda da una orecchia molto tempo, eziandio prima che intrasse nel monasterio, e da poi. Nondimeno, essa madonna Chiara toccandole la orecchia sorda e fattole lo segno de la croce, fu liberata. De le altre sore disse non se recordava, benché più altre ne fussero state liberate» (testimonianza di sora Amata de Messere Martino da Coccorano, Processo di canonizzazione di santa Chiara, FF 3008).
Frate Antonio di Padova porta a commento di questo brano una nozione un po’ curiosa: «La Storia Naturale ci dice che il cervo, se tiene le orecchie dritte, ha un udito finissimo e subito individua il cacciatore che tenta di colpirlo; ma se tiene le orecchie penzoloni non sente nulla e neppure si accorge che qualcuno cerca di ucciderlo. Dice perciò Isaia: “Drizzami ogni mattina, drizzami ogni mattina gli orecchi, affinché io ti ascolti come un maestro” (Is 50,4). O sordo, drizza dunque gli orecchi come il cervo, e ascolta il tuo maestro: allora scoprirai gli agguati del diavolo cacciatore. Ma se hai le orecchie penzoloni, rifiuterai cioè di obbedire, credimi pure che sei destinato alla morte» (Sermone domenica XII dopo Pentecoste).
Per poi concludere: «Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, che con le dita della tua incarnazione tu ci apra gli orecchi, e con la saporosa saliva della tua sapienza tocchi la nostra lingua, affinché possiamo obbedirti, lodarti, benedirti, e meritiamo di giungere a te che sei benedetto e glorioso. Accordacelo tu, che vivi e regni con il Padre e lo Spirito Santo nei secoli eterni. E ogni anima fedele risponda: amen, alleluia!» (Sermone domenica XII dopo Pentecoste).
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