In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: [...]
Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio”. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna. [...]
Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno» (Mt 5,17-37).
VI domenica del tempo ordinario, anno A – La pagina evangelica proposta dalla liturgia è particolarmente lunga e articolata. Meriterà un approfondimento quotidiano nei prossimi giorni. Qui possiamo ricordare che questi versetti sono in continuazione con il “discorso della montagna” proposto dall’evangelista Matteo: i discepoli di cui si fa riferimento come ascoltatori del messaggio di Gesù sono il “popolo delle beatitudini”, sono quelli che qualche versetto prima erano stati identificati come “sale della terra” e “luce del mondo”. Quindi un discorso per “iniziati”, per “chiamati” alla sequela, per quanti sono disponibili a lasciarsi interrogare dalla proposta audace del Maestro. Il quale – Rabbì, ma soprattutto Figlio di Dio – in fondo porta a compimento la preghiera antica del salmista che nel Salmo 118 dice: «Aprimi gli occhi perché io consideri le meraviglie della tua legge. Insegnami, Signore, la via dei tuoi decreti e la custodirò sino alla fine. Dammi intelligenza, perché io custodisca la tua legge e la osservi con tutto il cuore». E’ quanto preghiamo anche noi oggi nel Salmo responsoriale proposto dalla liturgia.
I versetti introduttivi (vv. 17-20) costituiscono una fondamentale premessa alle successive antitesi (cf. Mt 5,17-48) in quanto presentano la posizione di Gesù riguardo alla legge mosaica. Il blocco delle antitesi è racchiuso poi tra un’introduzione (v. 20), che suggerisce ai discepoli di Cristo un comportamento diverso da quello adottato dai giudei, e una conclusione (v. 48), che indica la meta verso la quale il cristiano è incamminato.
Gesù chiede ai suoi discepoli una «giustizia superiore» a quella degli scribi e dei farisei (v. 20). Quando Gesù chiede ai suoi discepoli una giustizia superiore non pensa a una superiorità di tipo «quantitativo» ma «qualitativo», chiede cioè di dare un nuovo orientamento alla vita, estirpando fin dalle radici il male e ciò che può condurre a esso. Le antitesi contrappongono alla formulazione della legge una nuova interpretazione da parte di Gesù. Il confronto: «Avete inteso che fu detto … Ma io vi dico», si ripete per sei volte. La formula stereotipa: «Io vi dico», mette in luce tutta l’autorità dell’insegnamento di Gesù. Egli non si richiama a una tradizione che lo precede, non invoca appoggi esterni alla sua parola, come facevano i rabbini del tempo. In primo piano sta la sua persona: ciò che Gesù dice trae valore dal fatto che è lui a dirlo.
Per esempio la prima antitesi (cf. Mt 5,21-26) richiama il quinto comandamento: «Non uccidere», con la conseguenza prevista in caso di non ottemperanza: «Chi avrà ucciso sarà sottoposto al giudizio». L’evangelista fa seguire la nuova interpretazione di Gesù: non basta non uccidere, bisogna soffocare il male all’origine, impedirgli di nascere e di abitare nel cuore dell’uomo. La condanna non è limitata al momento dell’uccidere, ma è estesa a chi coltiva moti d’ira nel suo cuore, a chi inveisce contro il prossimo con offese. Gesù dunque chiede un “di più” perché il comandamento non sia solo osservato, ma anche praticato nel profondo: perché sia il risultato “naturale” di un percorso di bene e riconciliazione.
Mi viene in mente l’immagine di un grande albero nel nostro giardino: maestoso, alto, ampie fronde. La sua bellezza e maestosità attirano il nostro sguardo. Eppure i botanici ci insegnano che nel sottosuolo c’è un albero-altro grande quanto il primo e fatto di intricate radici: senza di esse l’albero in superficie sarebbe nulla, non avrebbe nutrimento e sostentamento, non starebbe in piedi… In superficie «non uccidere», ma in profondità non basta non uccidere, bisogna soffocare il male all’origine, impedirgli di nascere e di abitare nel cuore dell’uomo. Un vero “radicalismo evangelico” che sostiene e nutre comandamenti divini che – se isolati – sembrano norme dis-umane: ma il nostro Dio si fa uomo per insegnarci a ricollegarle col nostro vissuto vitale.
Di fronte ai farisei, osservanti scrupolosi e orgogliosi della legge, Gesù chiede dunque una giustizia superiore realizzata non mediante un’ osservanza più rigorosa, ma mediante uno stile completamente nuovo di agire e di concepire la stessa osservanza della legge. Dove infatti la legge diceva: «Non uccidere», Gesù afferma che non si deve offendere, che si deve avere rispetto assoluto per gli altri. Dove si diceva: «Non commettere adulterio», Gesù afferma che ci si deve guardare dai desideri disordinati. E’ in pratica l’amore il criterio primo che deve guidare il discepolo di Gesù. L’amore viene prima dell’osservanza della legge, prima dello stesso culto offerto a Dio. Gli esempi riportati dal vangelo hanno lo scopo di aiutare a incarnare questo spirito nuovo. Non amiamo, per esempio, se ci facciamo più grandi degli altri, se esigiamo un rispetto che distrugge la fratellanza; non amiamo quando diventiamo taglienti e uccidiamo a parole, quando disonoriamo il fratello deridendolo, trattandolo da imbecille; non amiamo, quando siamo impazienti o troppo esigenti…
Tra le tante risonanze di questi versetti segnalati da Bibbia Francescana riportiamo la volontà di santa Chiara riportata nella sua Regola, IX:
«Se accadesse – non sia mai! – che tra sorella e sorella per una parola o un segno talvolta nascesse occasione di turbamento o di scandalo, quella che avrà dato causa al turbamento, subito, prima di offrire davanti al Signore il dono della sua orazione, non solo si prosterni umilmente ai piedi dell’altra domandando perdono, ma anche la preghi con semplicità di intercedere per lei presso il Signore che le sia indulgente. L’altra poi, memore di quella parola del Signore: Se non perdonerete di cuore, nemmeno il Padre vostro celeste perdonerà a voi, perdoni generosamente alla sua sorella ogni offesa fattale» (FF 2803).
Oppure san Francesco, nella Regola non bollata, XI:
«E i frati non si adirino, perché chiunque si adira con il suo fratello, sarà condannato al giudizio; chi avrà detto al proprio fratello «raca», sarà condannato nel sinedrio; chi gli avrà detto «pazzo», sarà condannato al fuoco della Geenna. E si amino scambievolmente, come dice il Signore: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate scambievolmente come io ho amato voi» (FF 37).link: http://bibbiafrancescana.org/2017/02/di-piu
Nessun commento:
Posta un commento