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domenica 10 novembre 2019

Dio non è dei morti - post per #bibbiafrancescana

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».
Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui». (Lc 20,27-38)

Domenica XXXII del Tempo ordinario – anno C – Dopo l’ingresso di Gesù in Gerusalemme, i vangeli sinottici narrano una serie di incontri-scontri del maestro con i vari gruppi rappresentativi del popolo giudaico. Il brano contiene la controversia con il gruppo dei «sadducei», la classe aristocratica dei sacerdoti (vv. 27-33). La risposta di Gesù evidenzia la fondatezza della dottrina della «risurrezione» e precisa il modo in cui la si deve intendere: non come un ritorno alla condizione terrena, ma come un’autentica novità di vita (vv. 34-38).

I «sadducei» erano i sacerdoti del tempio, custodi della legge e conservatori della tradizione. Accettavano solo il Pentateuco come Scrittura ispirata e, poiché in esso non si parla esplicitamente di risurrezione, essi la ritenevano una dottrina nuova e quindi la rifiutavano. Poiché era noto che Gesù parlava della risurrezione e la annunciava come contenuto nel suo messaggio, i sadducei si avvicinano a lui con intenzione polemica (v. 27), al fine di metterlo in ridicolo e mostrare come la dottrina della risurrezione non possa reggersi.


La vicenda che i sadducei propongono a Gesù (vv. 28-33) sa di esagerazione paradossale, ma possibile nella casistica della realtà che supera talvolta la fantasia. Secondo l’antica norma del «levirato», cioè del cognato (cf. Dt 25,5-10), si faceva obbligo al fratello di un uomo morto senza figli di prenderne in moglie la vedova, perché avesse dei figli e continuasse il nome del fratello morto prematuramente. Ora, la situazione che i sadducei raccontano serve come un caso morale controverso, di difficile soluzione per quel che riguarda la situazione dopo la morte degli otto personaggi chiamati in causa. Secondo loro, dopo la morte non c’è più niente, e quindi la questione che sottopongono a Gesù non ha, dal loro punto di vista, alcuna ragione di essere formulata; ma se, al contrario, si ammette la risurrezione, allora bisogna fare i conti con una ripresa della condizione terrena matrimoniale e qui la questione diventa complicata. Il caso del quale i sadducei si fanno portavoce dimostra, perciò, che la risurrezione è contro la legge di Mosè, dal momento che viene a determinare situazioni impossibili. Mettendola in paradosso possibile essi pensano di demolire la dottrina di Gesù. Ma si sbagliano!

La risposta che nel vangelo Gesù dà ai sadducei in merito al tema della risurrezione è formulata in un linguaggio giudaico, perché il maestro vuole parlare la lingua dei suoi oppositori. Anzitutto, bisogna notare che il discorso sulla risurrezione non è connaturato con la religione biblica. Prova ne è che gli stessi sacerdoti di Israele lo sentivano come una novità. Gesù, invece, difende questa novità e la insegna con tutte le forze, rimproverando i sadducei di non conoscere bene la Scrittura, ma soprattutto di inscatolare Dio nella loro testa, senza rendersi conto che egli può fare molto di più di quanto essi immaginano.

Il problema di fondo dei sadducei non è a tutt’oggi superato. Molti cristiani conservano una visione distorta della risurrezione immaginandola come una ripresa della vita attuale, proiettando oltre la morte la presente situazione terrena: il desiderio più comunemente espresso al riguardo è la possibilità di incontrare di nuovo i propri cari defunti. Sembra che ognuno abbia come interesse principale quello di rifarsi la propria famiglia terrena in un angolo di cielo: il resto interessa meno… Con la nostra fantasia non siamo molto potenti, e credendo poco alla potenza di Dio, preferiamo tenerci quel poco che conosciamo e ci accontentiamo di proiettarlo oltre la morte sperando di riprenderlo come era. Allo stesso modo, i sadducei, immaginando la risurrezione come il prolungamento della condizione terrena, non riuscivano a capire come risolvere il problema di una donna che è stata sposata con sette mariti.

Gesù sconvolge il loro modo di pensare, affermando con solennità che nella risurrezione le cose saranno diverse. La realtà sarà nuova e la condizione dei risorti sarà tale da non poter essere assolutamente né pensata, né capita con i nostri ragionamenti terreni. La condizione dei risorti non sarà analoga a quella terrena, ma sarà una novità. I figli della risurrezione sono coloro che vivono questa trasformazione divina e superano il ciclo normale dell’esistenza.

Ma allora non ritroveremo più le persone care? Questa è la domanda di molti. Le ritroveremo, ma nel Signore. L’evento della risurrezione ha Cristo al centro: non è un fatto scontato, automatico e indipendente da Cristo. Gesù Cristo risorto è il centro, la causa e l’obiettivo di tutto. In lui e con lui noi risorgeremo; e in lui, come lui vorrà, incontreremo di nuovo le persone che hanno segnato la nostra vita. Perché saremo proprio noi, ma saremo completamente diversi. L’importante, però, è che «noi saremo sempre con lui» (cf. lTs 4,17). Tuttavia, ora non riusciamo a immaginarlo, perché non conosciamo appieno la potenza di Dio creatore.

Per fondare biblicamente il suo discorso, e in modo adatto ai sadducei, Gesù si appella al Pentateuco, citando con parti-colare profondità un versetto dell’Esodo (cf. Es 3,6). Quando Dio si presenta a Mosè nel roveto ardente, Abramo, Isacco e Giacobbe sono morti e sepolti da secoli; i sadducei hanno l’incubo dei cadaveri e considerano il corpo morto come impuro e intoccabile. Ora però Dio, che è il Santo per eccellenza, in quel passo biblico si presenta con il nome di tre morti (cf. Lc 20,37-38): è possibile dunque che Dio si qualifichi come il Dio di tre cadaveri? Se è impossibile, anche i sadducei devono ammettere che nelle antiche Scritture si accenna già alla fede in Dio che fa vivere i morti. Questa è la dottrina di Gesù: tutti vivono per lui in quanto «creati» da lui e vivranno per lui in quanto «ri-creati» da lui. La risurrezione, dunque, è una nuova creazione, l’intervento della potenza di Dio che ricrea lo stesso mondo con grande novità. [*]

San Bonaventura da Bagnoregio legge teologicamente i grandi segni comparsi sul corpo esanime di Francesco d’Assisi (le stimmante), e ne vede i segni anticipatori della risurrezione futura:

«Dio che aveva reso mirabilmente risplendente, in vita, quest’uomo ammirabile [Francesco], ricchissimo per la povertà, sublime per l’umiltà, vigoroso per la mortificazione, prudente per la semplicità e cospicuo per l’onestà di ogni suo comportamento, lo rese incomparabilmente più risplendente dopo la morte. L’uomo beato era migrato dal mondo; ma quella sua anima santa, entrando nella casa dell’eternità e resa gloriosa dall’attingere in pienezza alla fonte della vita, aveva lasciato ben chiari nel corpo alcuni segni della gloria futura: quella carne santissima che, crocifissa insieme con i suoi vizi, già si era trasformata in nuova creatura, mostrava agli occhi di tutti, per un privilegio singolare, l’effigie della passione di Cristo e, mediante un miracolo mai visto, anticipava l’immagine della risurrezione». (Leggenda maggiore, XV, 1 : FF 1246)
Antonio di Padova, francescano e teologo, richiama il brano lucano odierno in un curioso passaggio dottrinale sulla risurrezione:
«Nella risurrezione finale […] sarà ben lontana ogni infermità, ogni incapacità, ogni corruzione, ogni inabilità, e ogni altra carenza indegna di quel Regno del sommo Re, nel quale i figli della risurrezione e della promessa saranno uguali agli angeli di Dio (cf. Lc 20,36); allora ci sarà la vera immortalità. La prima condizione dell’uomo fu il poter non morire; per causa del peccato gli fu inflitta la pena di non poter non morire: seconda condizione; lo attende, nella futura felicità, la terza condizione: non poter più morire. Allora usufruiremo in modo perfetto del libero arbitrio, che al primo uomo fu dato in modo che “potesse non peccare”; sarà appunto perfetto quando questo libero arbitrio sarà tale da “non poter peccare”. O giorno ottavo, tanto desiderabile, […]» (Sermoni, Nella circoncisione del Signore, 5)
«Preghiamo dunque, fratelli carissimi, e supplichiamo la misericordia di Gesù Cristo perché venga e si fermi in mezzo a noi, ci conceda la pace, ci liberi dai peccati, estirpi dal nostro cuore ogni dubbio e imprima nella nostra anima la fede nella sua passione e risurrezione, affinché con gli apostoli e con i fedeli della chiesa possiamo conseguire la vita eterna. Ce lo conceda colui che è benedetto, degno di lode e glorioso per i secoli eterni. E ogni anima fedele risponda: Amen. Alleluia». (Sermoni, Domenica dell’Ottava di Pasqua, 13)
[*] C.Doglio in “Lezionario Commentato. Festivo. Tempo Ordinario 26-34″, Edizioni Messaggero Padova, Noventa Padovana (PD) 2007.

foto Rebel

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