Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio». (Gv 10,11-18)
Domenica IV del Tempo pasquale – anno B – Il cuore del tempo pasquale, in preparazione alla Pentecoste, lascia i temi riferiti all’incontro con il Risorto (come sin qui nei vangeli domenicali) per riportarci a comprendere chi sia il Risorto. E’ lo stesso che prima dell’esperienza della passione-morte-risurrezione ha svelato la sua realtà e quella della sua relazione col Padre e quella del progetto di obbedienza al Padre. Tra questo universo ricchissimo di testi e pagine evangeliche, la IV domenica di ogni ciclo liturgico riporta sempre l’immagine del “Pastore buono”.
La parola “buono” riferita qui al pastore non rievoca tanto la dolcezza d’animo quanto la realizzazione perfetta della missione del pastore, come” la buona via” è quella che conduce alla mèta. Questa dichiarazione è perfettamente parallela a «Io sono la vera vite» (15,1). L’immagine del pastore è abituale per indicare i re. Israele si è servito di questa immagine per indicare il suo Dio, come pure il suo rappresentante, il re. Davide, che d’altra parte fu pastore sin dall’infanzia, è il re-pastore per eccellenza (vedi 1Samuele 16,11; 17,34; Salmo 78,70-72). Il Messia, nuovo Davide, è presentato come un pastore. Nei profeti (Geremia 23,1-6; Ezechiele 34; 37,24) il Signore condanna i cattivi pastori e dichiara che susciterà un buon pastore, discendente di Davide. Questa è l’origine delle immagini usate da Gesù. Mentre però i profeti parlano dei pastori come di personaggi diversi da loro, Gesù dichiara: «Io sono il buon pastore». Siamo perciò nell’ora in cui si compiono le profezie. Il pastore Davide non aveva paura di rischiare la vita per liberare le sue pecore dai leoni e dagli orsi (1 Samuele 17,34-35). Gesù è il nuovo Davide, il capo secondo il cuore di Dio (1Samuele 13,14).
Il pastore buono non è come il mercenario. L’antitesi ora non è più tra il pastore che fa il suo lavoro e il ladro (10,8-10), ma tra il pastore per eccellenza e il mercenario. Questo fa il suo mestiere per il salario che guadagna, Il suo lavoro non impegna tutta la sua vita. In questi pastori che non sono a tempo pieno, impegnati nei riguardi del gregge, possiamo riconoscere gli scribi e i farisei. Ma lo scopo dell’antitesi è di dimostrare fino a che punto il buon pastore si impegna a favore delle sue pecore e come egli si identifica con la sua missione. Perché il vero pastore “conosce”: innanzi tutto le pecore gli appartengono. Poi le conosce e questa conoscenza è reciproca, come annunzia la profezia della Nuova Alleanza: «Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno» (Geremia 31,33-34).
Si tratta di una conoscenza così profonda che Gesù la paragona a quella che lo unisce a suo Padre. Gesù, perciò, non si presenta soltanto come il nuovo Davide, che Dio doveva inviare, ma come il Signore che dice: «Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e le farò riposare» (Ezechiele 34,15).
Gesù poi appare radicalmente diverso da ogni mercenario perché “vive per” il suo gregge fino a saper offrire la vita per il suo gregge. Qui si rivela in lui l’amore di Dio per noi, modello di ogni servizio e di ogni autorità, misura della reciproca appartenenza e conoscenza. Appartenenza e conoscenza di tutti: gli evangelisti dimostrano che l’opera di Gesù supera i limiti d’Israele e che è universale. Quelle «che non sono di questo ovile» sono i Samaritani (c. 4), i pagani, «i figli di Dio che erano dispersi» (11,52). Perché “un solo gregge – un solo pastore”. Traduzione e formula classica. Il greco usa due parole della stessa radice. Si potrebbe tradurre: « Un solo ovile, un solo pastore». Paolo dirà: «Un solo corpo, un solo Spirito… un solo Signore; una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti» (Efesini 4,4-6). La prospettiva di unità aperta da Gesù: «Ha fatto dei due, Israele e pagani, un popolo solo» (Efesini 2,14), è un allargamento alle dimensioni del mondo e della storia.
L’immagine del “buon pastore” dovette essere molto cara a san Francesco visto che la rende presente molte volte nei suoi scritti. Ad esempio, nelle Ammonizioni:
«Guardiamo con attenzione, fratelli tutti, il buon pastore, che per salvare le sue pecore sostenne la passione della croce. Le pecore del Signore l’hanno seguito nella tribolazione e nella persecuzione, nella vergogna e nella fame, nell’infermità e nella tentazione e in altre simili cose, e per questo hanno ricevuto dal Signore la vita eterna. Perciò è grande vergogna per noi, servi di Dio, che i santi hanno compiuto le opere e noi vogliamo ricevere gloria e onore con il solo raccontarle» (VI : FF 155).
«E sempre costruiamo in noi un’abitazione e una dimora permanente a lui, che è il Signore Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo, che dice: «Vigilate dunque e pregate in ogni tempo, perché siate ritenuti degni di sfuggire a tutti i mali che stanno per venire e di stare davanti al Figlio dell’uomo. [...] E quando vi metterete a pregare, dite: Padre nostro che sei nei cieli». [...] E a lui ricorriamo come al pastore e al vescovo delle anime nostre, il quale dice: «Io sono il buon Pastore, che pascolo le mie pecore e per le mie pecore do la mia vita» (Regola non Bollata, XXII : FF 61).
«Oh, come è santo e come è caro, piacevole, umile, pacifico, dolce, amabile e sopra ogni cosa desiderabile avere un tale fratello e un tale figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, il quale offrì la sua vita per le sue pecore, e pregò il Padre dicendo: «Padre santo, custodisci nel tuo nome quelli che mi hai dato nel mondo; erano tuoi e tu li hai dati a me…» (Lettera ai fedeli, II : FF 178/3).Papa Francesco mette in luce il “vivere per” testimoniato anche nel Vangelo giovanneo del “buon pastore” parlando di quel grande Pastore e Vescovo che fu don Tonino Bello, terziario francescano:
«Vivere per è il contrassegno di chi mangia questo Pane, il “marchio di fabbrica” del cristiano. Vivere per. Si potrebbe esporre come avviso fuori da ogni chiesa: “Dopo la Messa non si vive più per sé stessi, ma per gli altri”. Sarebbe bello che in questa diocesi di Don Tonino Bello ci fosse questo avviso, alla porta delle chiese, perché sia letto da tutti: “Dopo la Messa non si vive più per sé stessi, ma per gli altri”. Don Tonino ha vissuto così: tra voi è stato un Vescovo-servo, un Pastore fattosi popolo, che davanti al Tabernacolo imparava a farsi mangiare dalla gente. Sognava una Chiesa affamata di Gesù e intollerante ad ogni mondanità, una Chiesa che «sa scorgere il corpo di Cristo nei tabernacoli scomodi della miseria, della sofferenza, della solitudine». Perché, diceva, «l’Eucarestia non sopporta la sedentarietà» e senza alzarsi da tavola resta «un sacramento incompiuto». Possiamo chiederci: in me, questo Sacramento si realizza? Più concretamente: mi piace solo essere servito a tavola dal Signore o mi alzo per servire come il Signore? Dono nella vita quello che ricevo a Messa? E come Chiesa potremmo domandarci: dopo tante Comunioni, siamo diventati gente di comunione?» (papa Francesco, Omelia, Molfetta 20 aprile 2018).
foto Rebel
link: http://bibbiafrancescana.org/2018/04/vivere-per/
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